L’ex ministro Veronesi sugli OGM

Sono uno studente di vent’anni. Con i miei amici discutiamo molto il problema della fame nel mondo. Si susseguono i «vertici» mondiali ultimo quello di Johannesburg, ma non si propone nulla di convincente Che fare?

La mia risposta è: «Mangiamo verdura!». Questa risposta mi ha procurato per anni sorrisini di compatimento, perché sembra utopistica. Non è così. Recentemente, mi sono sentito confortato nella mia opinione vedendo che Jeremy Rifkin, ascoltato economista e sociologo (è presidente della Foundation on Economics Trends di Washington), e altri importanti economisti agrari (uno per tutti il modenese Antonio Saltini, intervistato proprio da Oggi n. 39 sul futuro dell’alimentazione) condividono ciò che io vado sostenendo da tempo: se ci sono nel mondo oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame è perché gran parte del terreno coltivabile viene dedicato a farvi nascere vegetali per alimentare animali da carne. Ogni anno sono destinati a bovini, ovini, suini e polli più di 150 milioni di tonnellate di cereali. Con uno spreco finale enorme, perché si perde l’80 per cento della potenzialità nutritiva.

Perché si perde? Perché nell’orgamsmo le proteine animali vengono rapidamente bruciate. Se poi facciamo un bilancio tra quanto nutrimento s’impiega per allevare un animale e quanta «resa» se ne ha ai fini dell’alimentazione umana, vediamo che il conto non torna. Non solo la carne ha una scarsa resa energetica (si «brucia» in fretta, come dicevo prima), ma, a causa degli scarti della lavorazione e delle spese per eliminarli, si dimostra chiaramente un cibo costoso. Ci possiamo permettere questo costo?

No. è molto più conveniente impiegare direttarnente nell’alimentazione umana un chilo di cereali (può nutnre più persone in un glorno, e non ha sprechi), che impiegarne la stessa quantità per alimentare un animale da carne. Spesso mi chiedono perché ho scelto di essere vegetariano. La prima risposta è di tipo etico. Si tratta di una scelta che ho fatto molto tempo fa perché sono fermamente convinto che gli uomini non abbiano il diritto di provocare la sofferenza e la morte degli altri esseri viventi.

Gli animali provano emozioni, dolore, paura. Che diritto abbiamo di strappare l’agnellino alla pecora per gustare un cosciotto di agnello e il vitello alla mucca per avere le «fettine» che le mamme umane amano tanto per i propri figli? Non credo che siano idee romantiche, senza fondamento. Ricordo ancora una sconvolgente inchiesta sul vero e proprio terrore che s’impadronisce degli animali portati al macello, quando arrivano in prossimità del mattatoio. Smettiamola di dire che gli animali «non capiscono».

Accanto a questa scelta etica, di rispetto per la vita degli esseri viventi, vengono avanti le considerazioni che ho fatto prima. Si tatta di semplice logica, anche se non sono un esperto di agricoltura. Rifkin, in un suo articolo recente, appoggia la mia semplice logica con alcune notizie: il 70% dei cereali coltivato negli Stati Uniti è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino, e dai Paesi ricchi arriva una crescente domanda di carne. Se rovesciassimo questa tendenza, e destinassimo il terreno coltivabile a cereali e legumi per l’alimentazione umana, cominceremmo a risolvere il problema della fame nel mondo.

Certo, non basta. Sarei un bizzarro sognatore se pensassi di risolvere il più tragico dei problemi della Terra con la ricetta della scelta vegetariana. Nei vertici di Doha, Monterrey e Johannesburg, che sono stati contestati anche aspramente, si è avviato qualche discorso importante, i cui effetti, però, non si vedranno subito. Per esempio, è importante l’iniziativa nel settore degli scambi commerciali, su cui è stato trovato un accordo tra Paesi ricchi e Paesi poveri. I leader mondiali hanno concordato sul fatto che bisogna permettere alle nazioni povere di diventare competitive sui mercati mondiali. Non so se si tratta solo di buone intenzioni, però almeno si è visto l’inizio di un cambiamento: Stati Uniti, Europa, Giappone e Canada hanno adottato programmi per rendere più facile l’accesso ai mercati dei prodotti esportati dai Paesi più poveri.

Naturalmente, anche questo non basta. Propongo perciò, tornando in un campo più vicino ai miei interessi scientifici di ripensare alla possibile utilità degli Ogm, gli organismi geneticamente modificati. A mio parere, è molto irragionevole averli demonizzati. Per gli Ogm è giusto applicare il cosiddetto «principio di precauzione», ma sarebbe miope rinunciare a biotecnologie che possono salvare i raccolti, aumentarli, risparmiare l’acqua. Certo, sono d’accordo che si prosegua questo sviluppo all’interno di processi che offrano le maggiori garanzie di sicurezza. Per quanto riguarda le biotecnologie, i due principi etico-giuridici cui in genere si fa riferimento sono la valutazione di impatto e il principio di cautela. Il primo esige che, prima di sviluppare una nuova tecnologia, se ne valutino rigorosamente i possibili effetti. La Convenzione di Rio de Janeiro (1992) sulla biodiversità impose chiaramente questo principio. Il secondo riguarda il caso in cui la scienza non abbia conoscenze sufficienti per la comprensione di un fenomeno. In questo caso, «la mancanza di piena certezza scientifica non rappresenta un motivo per rinviare misure di prevenzione».

Lo so, si tratta di enunciazioni e di princìpi che possono sembrare astratti. A mio parere, non lo sono. Applicati con cognizione di causa, senza far prevalere il principio del profitto tout court, possono costituire una buona salvaguardia. Discutiamone di più, chiariamo i punti oscuri e i punti non convincenti, stabiliamo più garanzie, e più certe. Ma non fermiamoci (come fanno alcuni) a rimpiangere l’agricoltura del buon tempo passato. Allora non c’erano sulla Terra sei miliardi di persone, che tra vent’anni diventeranno più di dieci.

Umberto Veronesi

Tratto dal settimanale “OGGI” (RCS)