Abusi dei padroni e ignoranza dei lavoratori

Stamattina, appena sveglio, guardo un telegiornale a caso: un servizio parlava di crisi del lavoro e mi ha colpito una ragazza che, intervistata, diceva di essere appena uscita da un colloquio dove il probabile-futuro-datore di lavoro le ha promesso un sequenza di 3 (tre) contratti a tempo determinato e poi forse l’assunzione a tempo indeterminato.

Se non sbaglio (potrei benissimo!) già alla seconda assunzione consecutiva a tempo determinato scatta (per legge) il contratto a tempo indeterminato!

cito:

Nell’ambito di una controversia tra alcuni dipendenti e il loro datore di lavoro, avente ad oggetto il mancato rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato, i lavoratori hanno proposto domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità Europee al fine di ottenere l’interpretazione delle clausole 1 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 – che figura in allegato alla direttiva del Consiglio del 28 giugno 1999 (1999/70/CE) – nonché sull’estensione dell’obbligo di interpretazione conforme imposto ai giudici degli Stati membri.

La Corte di Giustizia con sentenza del 04/07/2006 ha affermato che non è consentito il rinnovo di contratti a tempo determinato se non sulla base di “ragioni obiettive”, ovvero di elementi concreti relativi in particolare all’attività di cui trattasi e alle condizioni del suo esercizio.

In ordine alla nozione di contratti a tempo determinato “successivi”, la Corte ha ritenuto non conforme alle finalità della normativa europea la legislazione nazionale che consideri tali i soli contratti o rapporti di lavoro separati gli uni dagli altri da un lasso temporale pari o non superiore a 20 giorni lavorativi, posto che una tale previsione consentirebbe di assumere lavoratori in modo precario per anni, consentendo l’utilizzazione abusiva di siffatti rapporti da parte dei datori di lavoro.

Inoltre, non è conforme al diritto comunitario una normativa nazionale che vieti in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare “fabbisogni permanenti e durevoli” del datore di lavoro e che pertanto devono essere considerati abusivi.

Infine, ha precisato la Corte che nell’ipotesi di tardiva attuazione nell’ordinamento giuridico dello Stato membro interessato di una direttiva e in mancanza di efficacia diretta delle disposizioni rilevanti di quest’ultima, i giudici nazionali devono nella misura del possibile interpretare il diritto interno, a partire dalla scadenza del termine di attuazione, alla luce del testo e della finalità della direttiva di cui trattasi al fine di raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali che sono maggiormente conformi a tale finalità, per giungere così ad una soluzione compatibile con le disposizioni della detta direttiva.

L’ordinamento italiano ha recepito la direttiva 99/70/CE con il Decreto Legislativo del 6 settembre 2001 n. 368 che ha posto una clausola generale di legittimazione del contratto a tempo determinato che può essere stipulato ai sensi dell’art. 1 a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo; l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto.

Il contratto si risolve automaticamente alla scadenza e il recesso, prima di detto termine è disciplinato dall’art. 2119 c.c.; il termine può essere prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni, la proroga è ammessa una sola volta a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato, inoltre, deve essere rispettata la durata massima di tre anni ed è sempre richiesto il consenso del lavoratore.

Ai sensi dell’art. 5 in caso di continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno, al 40% per ciascun giorno ulteriore.

Se il rapporto continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, entro dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.

Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

© Studio Cataldi

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