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PDF responsive

È almeno dal 2020 che esiste la funzione Liquid Mode nella versione di Acrobat per dispositivi mobili, ed è una cosa che può sicuramente tornare utile per chi ancora non sa cos’è.

Se, come me, siete dei genitori frustrati dalle lacune comunicative della scuola dove va vostro figlio – leggetevi pure il mio rantolo a riguardo – avrete avuto sicuramente la necessità di leggere qualche PDF sul vostro cellulare.

Cosa piuttosto ardua da fare, visto che i PDF che prepara la scuola (ma non solo) solitamente sono fatti per essere stampati e letti su un foglio di carta formato A4, e sicuramente non sul piccolo schermo di un cellulare.

Non solo la scuola, ma anche qualsiasi tipo di azienda e/o istituzione non ha ancora capito che oggigiorno non si può più impaginare un documento in formato A4 e darlo via come si faceva una volta, perché ormai il supporto fisico più diffuso è il monitor di un cellulare qualsiasi, di cui non si conosce dimensione né risoluzione.

Questo è il tipico problema che avevano i web master e i programmatori web agli albori di internet, quando venivano creati siti web con avvertenze del tipo “ottimizzato per la risoluzione 1024×768 pixel” – non sapendo di quali mezzi disponeva l’utente finale (cioè il visitatore del sito) i siti web erano creati pensando alla dimensione che era più diffusa dei monitor, oppure alla più piccola (se non si voleva tagliare fuori nessuno), oppure venivano create più versioni. Poi arrivò il web ‘responsive’, e la cosa finalmente trovò una soluzione ottimale.

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La fine dei font Type1 nelle applicazioni di grafica

Qualche tempo fa Adobe ha annunciato che “disabiliterà il supporto per l’authoring con i font di tipo 1 entro gennaio 2023”.
Cosa significa questo dal punto di vista della prestampa e dei PDF?

Prima di tutto, dobbiamo guardare indietro per vedere come i font Type 1 sono arrivati nel mondo e come si inseriscono nei formati di font di oggi.

Sono stati introdotti insieme a PostScript nell’età della pietra della prestampa digitale, nel 1984. PostScript e i font Type 1 erano una parte essenziale di quello che all’epoca veniva chiamato “Desktop Publishing” (DTP). Il successo di PostScript nel consentire il DTP ha reso necessario che i sistemi operativi integrassero la gestione dei font.

Microsoft e Apple dovettero decidere se utilizzare (e concedere in licenza) la tecnologia Type 1, ma decisero di seguire le proprie strade introducendo TrueType, un formato di font completamente diverso. Questi due formati, Type 1 e TrueType, sono tuttora gli unici formati realmente diversi; tutti i formati di font più recenti sono varianti di uno di essi o ibridi, cioè di entrambi.

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Scuola italiana & Inefficacia comunicativa

1) Inutili rantoli di un genitore frustrato

Sembra che la piattaforma Spaggiari/ClasseViva sia l’unica esistente fra le scuole italiane, o almeno nelle scuole dalle mie parti: fra quelle per cui sono passati i miei figli, tutte usano questa.

Mi spiace dirlo dal basso della mia superbia, ma è molto poco usabile.

La prima pecca che ho trovato quasi insormontabile è che l’accesso è costruito sull’idea che ogni studente abbia 1 genitore soltanto, oppure 2 genitori che condividono tutto, compreso i dati di accesso alla piattaforma e l’indirizzo email abbinato; di default si può abbinare uno studente a un genitore, e non a due.

Il supporto tecnico di Spaggiari/ClasseViva risponde che “è possibile associare un solo indirizzo mail al profilo. Se necessita di agganciare un secondo indirizzo mail, La invito a rivolgersi alla segreteria scolastica per far generare credenziali di tipo Genitore 2.”

Per avere l’accesso distinto al medesimo figlio, i due genitori devono perciò mettersi a combattere con le segreterie scolastiche, con la loro ignoranza e con la loro pigrizia.

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Perché pensare logora

La concentrazione per lunghi periodi accumula sostanze chimiche che interrompono il funzionamento del cervello.

Una giornata lavorativa piena di una serie di compiti mentalmente impegnativi può farti sentire esausto. Dopo lunghe ore trascorse mentalmente a tenere traccia di un pensiero dopo l’altro, probabilmente è più probabile che tu scelga una serata rilassante di TV piuttosto che affrontare un compito difficile nella tua lista di cose da fare o dedicare tempo a un’attività creativa. Un nuovo studio fornisce una spiegazione biologica per questo fenomeno familiare: pensare intensamente porta a un accumulo di sostanze chimiche che possono interrompere il funzionamento del cervello.

Per qualche tempo, gli scienziati hanno lottato per trovare una spiegazione del motivo per cui le nostre risorse mentali si esauriscono. I ricercatori hanno ipotizzato che lunghi periodi di intenso sforzo mentale portino a un esaurimento del glucosio e di altre risorse chiave che riforniscono il cervello affamato di energia.

I primi esperimenti negli anni 2000 hanno supportato questa nozione, riportando che le persone hanno sperimentato una riduzione della glicemia dopo un compito cognitivamente impegnativo e che il consumo di una bevanda zuccherata potrebbe aumentare le prestazioni. Ma il lavoro successivo non è riuscito a riprodurre quei risultati. “Se guardi tutti gli studi insieme, non c’è stato, in media, alcun effetto”, afferma Antonius Wiehler , neuroscienziato cognitivo presso l’ospedale Pitie-Salpétrière in Francia.

In uno studio pubblicato nel 2016, Mathias Pessiglione e il suo team hanno dimostrato che lunghi periodi di compiti mentalmente impegnativi rendevano le persone più propensi a scegliere la gratificazione immediata piuttosto che aspettare una ricompensa maggiore più tardi. Questo cambiamento comportamentale è stato accompagnato da una diminuzione dell’attività cerebrale in un’area coinvolta nei processi cognitivi come il processo decisionale. Il risultato ha lasciato il team con la domanda su cosa stesse causando questo cambiamento nell’attività cerebrale.

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Il principio di Peter

Come già scrivevo in passato, essere un buon capo non è un mestiere facile, e soprattutto non ci si può inventare tali; nemmeno vale l’idea che qualcuno possa permettersi di calare dall’alto l’etichetta di “capo” sulla testa di chiunque altro ed aspettarsi che questo chiunque diventi un “buon capo” solo in forza della nuova etichetta gli è stata data.

Sempre parlando di leadership e di tutte le sue declinazioni (direttore, capo, boss, manager, … ) ecco un altro cosa interessante in cui mi sono imbattuto…

«In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza»

Il principio di Peter è una tesi, apparentemente paradossale, che riguarda le dinamiche di carriera su basi meritocratiche all’interno di organizzazioni gerarchiche. Noto anche come principio di incompetenza, esso fu formulato nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter, in un libro dal titolo The Peter Principle, pubblicato nel 1969 in collaborazione con l’umorista Raymond Hull.

«Con il tempo, ogni posizione lavorativa tende ad essere occupata da un impiegato che non ha la competenza adatta ai compiti che deve svolgere.»

Questa dinamica, di volta in volta, li porta a raggiungere nuove posizioni, in un processo che si arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che gli autori intendono per «livello d’incompetenza», raggiunto il quale la carriera del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta per una nuova promozione.

«Tutto il lavoro viene svolto da quegli impiegati che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza.»

Il principio di Peter va inteso nel senso che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni.

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