Stufato, gustoso piatto invernale da riscoprire

La voce “stufato” indica una pietanza di carne,di solito di manzo e più raramente di castrato o di maiale, fatta cuocere in umido a fuoco lento, in recipiente chiuso con olio, pomodori e aromi vari. La voce è di etimo incerto, anche se per assonanza richiama subito alla mente la stufa. Però non è escluso che possa anche derivare dal tardo latino extufare, in quanto i Romani conoscevano già questo metodo di cottura, così definito: carnis decocta atque condita. Quindi niente di nuovo attorno al focolare, sia domestico, sia da mensa collettiva.

Certo, in tempi di spinte al consumismo di vivande pregiate, lo stufato ha visto scemare di gran lunga la sua popolarità, poiché come materia prima utilizza le parti meno costose dei bovini, ossia tagli di spalla e di collo, e il muscolo, che alterna la polpa a fasce di cartilagini. Curiosamente, nell’immaginario collettivo, lo stufato viene considerato piatto da poveri in canna, o quasi, mentre non si tiene conto, per esempio, dell’eventuale spesa per il condimento e per la lardellatura. Difatti, siccome la carne è magra, quasi sempre viene fasciata con strisce di lardo o di pancetta.

E non parliamo del costo della marinata, che prevede di solito abbondante dose di vino rosso di buona qualità, con aggiunta di sedano, carota, cipolla, alloro, sale e spezie. La marinata dello stufato dura 12 ore e sono particolarmente lunghi anche i tempi di cottura; la rosolatura della carne, infine, esige parecchio olio e/o burro. Insomma, per realizzare uno stufato eccellente non bisogna badare a tempo e danaro. Dal punto di vista dietetico si tratta di un piatto di buon contenuto calorico, seppure non eccessivo, che si cucina prevalentemente d’inverno. In Italia lo stufato è stato per secoli una portata di grande importanza nel Settentrione, ma era di uso frequente anche nelle regioni centrali.

Oggi è inutile andarlo a cercare nelle liste dei ristoranti di qualsiasi fascia, quasi tutti intenti alla creatività, con ripudio dei piatti della nonna. Tuttavia questo è un discorso che coinvolge non solo lo stufato, ma la cucina regionale di vecchio stampo nel suo insieme. Se invece diamo un’occhiata all’Europa, troviamo tuttora in primo piano l’Irish stew, una specialità irlandese caratterizzata dalla presenza di numerose verdure. In Gran Bretagna, invece, si prepara lo stufato di rognone. Se poi voliamo a New York, dove la cucina anglosassone ha dettato a lungo legge, vediamo che nel cuore della Grande Mela è rimasto in auge il Mulligam stew, a base di spalla di manzo e di agnello fatte cuocere in acqua, con olio d’oliva, vegetali di stagione, rape, carote, peperoni e patate, aromatizzato con tabasco.

Tornando nel Vecchio Mondo, e più precisamente in Francia, ci rendiamo conto che gode ancora buona rinomanza il Boeuf en daube, un piatto di mezzo che corrisponde al nostro stufato. La carne viene preventivamente immersa nella macreuse (marinatura), a base di mezzo litro di vino rosso. Poi occorre anche un bicchiere di Cognac. Con il liquore si fiammeggiano in casseruola fettine di carote, assieme allo scalogno, infine dadini di lardo, un mazzetto guarnito e un piedino di vitello disossato. Nel giro cuciniero internazionale troviamo anche gli stufati di pesce, che però sono poco diffusi. Se invece restiamo nell’ambito della carne, quando la si utilizza tagliata a pezzetti, si ha il cosiddetto “stufatino”, definizione meno comune rispetto al notissimo “spezzatino”.

A tal proposito si può citare un piatto della cucina casereccia romana, ossia lo stufatino di muscolo alla romana. In gergo da mattatoio qui il muscolo viene chiamato “pulcio” o “campanello”. Per bagnare la carne si adopera il Frascati, mentre per colorire la preparazione ci vuole una consistente dose di salsa di pomodoro. Contorno classico di questo stufatino, già ampiamente diffuso nelle trattorie della vecchia Roma, è il “sellero”, il sedano, in alternativa con i cardi gobbi. Lo stufato lombardo, invece, si prepara con il taglio “brione” di manzo, oppure con lo scamone. Il taglio viene dapprima lardellato con pancetta a striscioline e poi fatto marinare per una notte nel vino rosso, vuoi Barbera dell’Oltrepo Pavese oppure Pinot nero vinificato in rosso.
Ce ne vuole una bottiglia.

Nell’infuso entrano di solito questi aromi: alloro, chiodi di garofano infilati in una cipolletta, costa di sedano, carota, pepe macinato, noce moscata e sale. Trascorso il tempo della marinatura la carne va scolata, asciugata e infarinata. Quindi si pone a rosolare in tegame (dicono vada bene la terracotta o la ghisa) con abbondante burro. Si versano nel tegame fettine di pancetta e una cipollina novella affettata. Quando la pancetta è sciolta, si versa in tegame il vino della marinata, ben filtrato. Si copre il recipiente, indi si lascia cuocere lo stufato per circa 4 ore, a fuoco moderato.

In Liguria, nei paesini dell’interno appenninico, si prepara ancora lo stufato di castrato, con patate, olio d’oliva abbondante, aglio, rosmarino e vino bianco secco tipo Pigato o Vermentino. Per il sugo: pomodori freschi, olio d’oliva, sedano, prezzemolo, rosmarino e sale. Se andiamo nel Ravennate, forse si mette ancora in casseruola lo stufato al latte. Qui si adopera lo scamone di manzo, poi tante cipolline novelle, burro, latte e rum. E ancora una grossa cipolla, costa di sedano, basilico, salsa di pomodoro e sale. La presenza del latte è ritenuta pressoché indispensabile per ammorbidire la carne. Più o meno sulla stessa lunghezza d’onda è il sanato al latte del vecchio Piemonte. Laddove il sanato è il vitello detto “della coscia”, i cui tagli però sono particolarmente pregiati.

E, guarda un po’, in Toscana, nel regno delle crete senesi, certe trattorie ti ammanniscono lo stufato di fave. Qui le fave, quelle più piccole e tenere, sono chiamate baccelli, si pongono a stufare con pancetta arrotolata, olio d’oliva, brodo, prezzemolo, una cipolla, uno spicchio d’aglio, sale e pepe. Se andiamo nelle Marche, piacevole sorpresa costituisce un gustoso umido alla marchigiana. Da notare che anche gli stufati fanno parte del repertorio degli umidi, assieme agli stracotti, agli spezzatini, ai ragù, salmì, civet e brasati.

Sostanzialmente tutto dipende dalla maggiore o minor presenza della componente liquida, dove quasi sempre la parte del leone la fa il vino. Per l’umido alla marchigiana, invece, è previsto un solo bicchiere di Rosso Conero, oppure di Rosso Piceno. Però è indispensabile 1 litro di buon brodo. Si adopera la carne di vitello magra, con qualche pezzetto di muscolo. Occorrono abbondanti i pomodori maturi, una grossa fetta di prosciutto, e fra gli aromi si distingue la maggiorana. Per finire il discorso non si può tralasciare la scottiglia toscana, che indica un umido di carni miste di origine aretina, diffuso anche in Maremma, dove si prepara la scottiglia di cinghiale, detta anche “cignale in dolce forte“.

Gira e rigira, lo stufato classico vanta una lunga storia. Ne rievochiamo un capitolo di impronta letteraria, grazie ad Alessandro Manzoni, scrittore insigne, ma non di certo circondato dalla fama di gourmet. Affabile ma molto riservato, quando d’estate si trasferiva nella sua vasta tenuta di Brusuglio, alle porte di Milano, don Lisander si trasformava in agricoltore provetto. Malgrado queste incursioni manzoniane nell’agroalimentare, va detto che nei Promessi Sposi le delizie della tavola non hanno mai un ruolo significativo. Difatti le citazioni di cucina sono assai parsimoniose e bisogna andare a cercarle con il lanternino.

Quella più ampia riguarda proprio lo stufato. Ebbene, in un capitolo dei Promessi Sposi, quando Renzo approda all’Osteria della Luna Piena, nel cuore di Milano, a pochi passi dal duomo, si sente proporre dall’oste la tradizionale vivanda, pronta per ogni occasione: “Ho dello stufato, vi piace?”. Non par vero a Renzo, spaurito e affamato, di cogliere al volo la proposta e così risponde: “Sì bravo. Dello stufato”. Queste frasi, rituali e sbrigative, sono indice di routine, poiché el stuàa era allora uno di quei piatti, come la busecca, ossia la trippa, sempre presente sulle mense milanesi. Se diamo un taglio al passato e veniamo al presente, c’è un curioso e insolito evento che coinvolge direttamente lo stufato.

Difatti, a San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, nella terza domenica di Carnevale, nei saloni della basilica di Santa Maria delle Grazie, un gran numero di appassionati si riunisce per degustare il prelibato stufato alla sangiovannese. Niente viene lasciato all’improvvisazione, poiché durante le tornate degli Uffizi di Carnevale spetta alle Compagnie del Suffragio, ciascuna guidata da un Camerlengo, di curare ogni dettaglio del pranzo in onore dello stufato. Se ne occupano, per tradizione, esclusivamente gli uomini, senza l’aiuto di moglie, figlie o fidanzate. Tra l’altro lo stufato del Castel di San Giovanni è ora protetto da un marchio legalmente registrato con apposito rogito notarile.

Quest’anno (2006) è stato presentato, insieme ad altri prodotti tipici locali, nonché ai vini della zona, nella sala consiliare del palazzo di Arnolfo. E dopo la tradizionale parata, in costume, la proposta di questo Stufato, con la esse maiuscola, prosegue per diversi giorni nei ristoranti e nelle trattorie della zona.

Stufato del Castel di San Giovanni, in poesia:

Nello periodo ch’è detto carnevale
alla Basilica, nelle grandi sale,
si riunivano in tempi ormai lontani
per far doni alla chiesa, i parrocchiani.
Racconta una leggenda che una donna,
per onorare meglio la Madonna
fece un piatto forte e assai drogato
che battezzò col nome di Stufato.
Questa ricetta tanto decantata
da padre in figlio è stata tramandata
e per la gioia di ogni buon palato,
è giunta a noi in original formato.
Se questo piatto buono tu vuoi fare
questi son gli ingredienti da adoprare:
muscolo libbre tre, tagliato a modo
e di osso e zampa a parte, fai del brodo.
Tanto prezzemolo e di cipolla una
fai un bel battuto con la mezzaluna,
vino, olio di oliva, un’impepata,
spezie, garofano e alfin noce moscata.
Indi di coccio un tegam devi pigliare,
ci versi l’olio ma senza esagerare;
perché riesca bene, se ti preme,
metti la carne col battuto insieme.
Allor che tutto principia a rosolare
non ti stancare mai di razzolare,
quando il colore ha preso marroncino,
metti le droghe e un bel bicchier di vino.
Appena il vino s’è tutto consumato
aggiungi il pomodoro concentrato
a questo punto puoi abbassare il fuoco:
cuoci aggiungendo il brodo, poco a poco.
Questo piatto che viene da lontano
saprà ridarti quel rapporto umano
e far capire anche al più somaro
che il tempo è vita e che non è denaro.

Il candore di questi versi, profumato di antica sapienza popolare, richiama alla mente le ricette ritmate, in dialetto milanese, da Giuseppe Fontana, lo “chef poeta” operante al Savini di Milano dal 1905 al 1929. Ecco uno scampolo di una sestina su sei dedicate dall’estroso personaggio a El risott à la milanesa:

Dent el ris. Ruga, bagnel con el vin
bianch, magher (mezz biccer). Dent el zaffran.
Ruga. Fagh sugà el vin. Sent che odorin!

I saggi di cui sopra sono lampante dimostrazione che esiste anche una cucina “regional-poetica” che sarà bene custodire con rispetto e amore, senza inutili ripulse né fanatismi.

fonte: civiltà del bere, ottobre 2006

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