Petrolio: ma quanto ne resta?

Leggendo le previsioni che l’unione petrolifera italiana faceva a fine 2006 per l’anno successivo si trovavano “stime di prezzi del petrolio inflessione sebbene ancora sui livelli ancora sostenuti: 62 dollari al barile rispetto agli 66,6 stimati per il 2006”.

Curiosamente c’è una nota che dice “salvo eventi imprevisti”. E meno male! Perché qualcosa di imprevisto ci deve essere stato se, dopo uno sprint durato mesi, il 2008 si è aperto col petrolio che ha superato la barriera dei 100 dollari al barile.E non ci vuole un genio per capire che da 62 a 100 significa un aumento del 50% abbondante. Quello che pareva lontano problema (il petrolio a 100 dollari) è diventato rapidamente una realtà con la quale fare i conti.

Ma non basta, perché sono tante (e documentate) le voci che evidenziano come il rischio di un prezzo del petrolio in rapida ascesa verso vette ancora più alte sia ben presente. Purtroppo occorre prendere atto che, sempre più spesso, problemi economico- ambientali e di sostenibilità dello sviluppo, che si pensava fossero destinati a un futuro lontano, sono invece già qui sull’uscio.

Non solo apparterranno sicuramente alla vita dei nostri figli, ma toccano già oggi noi, abitanti di questo mondo.
Un mondo che è ammalato di petrolio.

Ne consumiamo (dati 2006) oltre 84,5 milioni di barili e giorno. Un milione in più sull’anno prima. Su base annua fanno un po’ meno di 31 miliardi di barili. L’IEA (International Energy Agency) prevede che nel giro dei prossimi venti anni il consumo di energia aumenterà, ad un tasso annuo intorno al 2%, di circa il 50%. Secondo l’energy information administration, un ente governativo americano, nel 2025 si consumeranno in un anno 43,5 miliardi di barili all’anno.

Ma ci saranno tutti questi barili pronti all’uso? Di fronte a questi scenari possiamo dirci tranquilli? Pare proprio di no. E questo per una combinazione di fattori che legano alla quantità di petrolio ancora effettivamente disponibile nei giacimenti, le difficoltà nel tirarlo fuori e l’andamento dei prezzi. In sostanza il concetto con cui cominciare a prendere confidenza, anche se può apparire un po’ ostico, è quello del picco di petrolio. Un tema apparentemente da addetti ai lavori, ma in realtà decisivo per i destini del mondo.

“Per spiegare di cosa stiamo parlando – spiega Davide Scrocca, geologo e ricercatore dell’istituto di geologia ambientale e geoingegneria del CNR – occorre ricordare che petrolio è una risorsa finita, dunque prima o poi destinata ad esaurirsi. L’80% del petrolio che consumiamo oggi viene da giacimenti scoperti prima delle 1973. Negli ultimi anni è stato trovato un barile di petrolio ogni quattro consumati”. Sono 30 anni che non si trova più un giacimento di grandi dimensioni.

“Il punto – continua – è che in questi anni siamo vissuti in una situazione in cui ad un aumento della domanda di petrolio poteva seguire senza problemi anche un aumento della produzione. Il problema del cosiddetto piccolo, è che i superato un certo punto, anche se aumenta la domanda la produzione non riesce a tenere il passo, perché tirar fuori petrolio da giacimenti sfruttati da anni comporta problemi tecnici e costi maggiori”.

Dunque lo scenario possibile è quello di un mercato che chiede sempre più petrolio senza che ce ne siano disponibili quantità sufficienti,. Con quali conseguenze sul piano dei prezzi, se lo scenario dei consumi energetici mondiali resta quella attuale, è facile immaginarlo.

Ovviamente sul fatto che il picco di petrolio sia stato raggiunto o sia comunque sempre più vicino, esistono opinioni discordanti, tra tecnici, analisti ed economisti. E anche qui come in altri campi, non manca chi critica l’eccessivo allarmismo di fronte ambientalista sulla prossima fine dell’oro nero.

Il tema è senz’altro delicato, e complesso anche perché avere cifre precise e attendibili su quanto petrolio ci sia ancora dentro ai giacimenti che si stanno sfruttando in questi anni, e quanto ce ne sia nascosto in nuovi giacimenti ancora non scoperti, è cosa pressoché impossibile.

E questo per una pluralità di motivi politico- economici che sono da tenere ben presenti. Infatti a fornire stime sul petrolio ancora presente nei giacimenti sono le compagnie petrolifere e i paesi produttori. è evidente, spiega ancora Davide Scrocca, che “le compagnie petrolifere, per mantenere alte le quotazioni delle proprie azioni, anno la tendenza a rivalutare artificiosamente al rialzo le stime delle riserve contenute nei loro giacimenti”. Sul piano dei paesi produttori (raggruppati nell’OPEC), tra il 1985 e il 1990 questi aumentarono le proprie riserve di oltre 280 miliardi di barili.

“La chiave per spiegare questo fenomeno, altrimenti incomprensibile, risiede nelle nuove regole che gli stessi paesi Opec avevano fissato per ridistribuire al loro interno le quote di produzione”. Ovvero, maggiori erano le riserve dichiarate e maggiore era la quota di produzione che veniva assegnata chiede di questi aspetti possiamo considerare alcune stime sull’entità delle riserve che viaggiano su cui 1100 miliardi di barili. Anche se agli esperti non piace, comunque, con previsioni di consumi proiettate verso i 40 miliardi di barili all’anno, vuol dire che di petrolio “sicuro” (cioè in giacimenti già scoperti e operativi) ce n’è per una trentina d’anni, che non è proprio un’eternità.

A questi 1100 miliardi di riserve c’è poi da raggiungere il petrolio che c’è ma ancora non è stato trovato un quello che si potrebbe recuperare in più grazie tecniche migliori di quelle attuali. “Anche questo proposito è bene spiegare che oggi per il 95% attingiamo petrolio convenzionale, cioè producibili e bassi costi. Poi c’è il petrolio cosidetto non convenzionale, cioè quello che sta in aree polari o in acque profonde o che si trova mescolato a sabbie o scisti bituminosi e i gas liquidi naturali (NGL), ossia idrocarburi allo Stato gassoso”.

è evidente che le difficoltà che ci sono da affrontare se si deve andare a prendere petrolio non convenzionale o gli NGL, sono molto più serie di quando si ha a che fare con il petrolio convenzionale. Ci sono enormi problemi di impatto ambientale (se si vuole scavare in zone polari ad esempio), ma c’è anche un consumo energetico molto maggiore da mettere nel conto.

“Petrolio mescolato a sabbie pare ce ne sia tantissimo – continua Scrocca – ma per renderlo disponibile c’è una lavorazione molto complessa e si consuma moltissima energia. Esiste un indice che si chiama EROEI che spiega quanti barili si ricavano ogni barile consumato nell’attività di estrazione. Ebbene, tra gli anni 1950 e 1970 l’indice EROEI era di circa 40 (cioè per ogni barile consumato se ne ricavavano 40). Oggi siamo a un rapporto di circa 1 a 9. Mentre per il petrolio non convenzionale l’indice scendere circa 1,5”. Cioè per 100 barili che ne consumo ne recupero appena 150.

Detto questo, si possono poi leggere alcune stime su quanto petrolio sia ancora da trovare: quelle più ottimistiche sono del servizio geologico americano che ipotizza 700 miliardi di barili ancora da scoprire (più 600 derivati da migliori tecniche di estrazione); ben più prudenti sono invece gli scienziati dell’ASPO (a associazione per lo studio del picco di petrolio) che si fermano a 130 miliardi di barili. Davvero distanze significative, che lasciano noi, semplici cittadini e consumatori, disarmati e perplessi

Ma puntare tutto solo sul capire quale sia la quantità complessiva di petrolio è ritenuta una strada in parte fuorviante dagli aspetti, anche perché come spiegato prima, chi fornisce i dati a stessi interessi economici e politici da difendere. “Il vero problema non è cercare di prevedere quando sarà estratta l’ultima goccia di petrolio, ma quando piuttosto la curva di produzione raggiungerà il suo massimo, cioè il picco di petrolio, per poi iniziare il suo lento e inevitabile declino”.

Cioè, lo ricordiamo, il momento in cui anche se aumenta la domanda di petrolio la produzione comincia a perdere inesorabilmente il passo. Ebbene, secondo molti scienziati (prevalentemente geologi e tecnici dell’industria petrolifera) il picco a livello mondiale è individuato nella prima metà del prossimo decennio, cioè tra il 2010 e il 2015. Il gruppo degli ottimisti, prevalentemente economisti, sposta il picco invece tra almeno venti anni, che praticamente è dopodomani!

Per completare il quadro è bene ricordare anche alcuni dati di fatto…
alcuni giacimenti come quelli nel Mare del Nord hanno già raggiunto, per esplicita ammissione dei loro proprietari, il loro picco nel 1999 e la loro produzione sta progressivamente calando. Una delle grandi aziende che operano nel mercato petrolifero mondiale come la Shell è stata costretta nel 2004 ad ammettere di avere sopra stimato le proprie riserve per 4,47 e miliardi di barili.

Un esperto come Lester Brown, fondatore del World Watch Institute e oggi direttore dell’Earth Policy Institute, ha osservato che nel 2007 “per la prima volta è diminuita la produzione di petrolio dell’Arabia Saudita. Non sappiamo se sia accaduto per ragioni politiche o geologiche, ma se la produzione Saudita sta declinando, allora l’economia mondiale non sarà più quella di una volta”.

Brown evidenzia un altro problema tutto politico: “i paesi produttori di petrolio sono in preda alla sindrome della scarsità. Sanno che devono far durare le scorte di più a lungo possibile e non accelerarne l’esaurimento. E dunque hanno un punto di vista ben diverso dalle compagnie petrolifere che vogliono massimizzare i profitti a breve scadenza”.

Dove si può andare e finire dunque se ci sarà meno petrolio disponibile? Difficile fare previsioni, ma è chiaro che nell’economia di oggi tutto, dal grano all’arresto del cibo, dipende dal costo dell’energia; e abbiamo già visto come la soglia di 100 dollari, che pareva così lontana, sia davanti a noi. Quel che è certo è che consumare meno energia e costruire alternative petrolio è una necessità urgente.

Perché tanti profitti e pochi investimenti?

Un altro indizio sospetto di questa fase decisamente delicata del mercato petrolifero è quello del comportamento delle grandi compagnie mondiali (guidata da Exxon,Bp, Shell, Chevron e Conoco). Uno studio della società di consulenza McKinsey ha calcolato che nel 2005 il flusso di cassa di queste aziende (cioè la differenza fra soldi incassati e spesi) è stato di 120 miliardi di dollari.

Una montagna d’oro enorme, mai vista della storia del settore è segno di quanto le cose vadano bene ai signori del petrolio. La sorpresa è che, andando contro quella che dovrebbe essere una legge del mercato – cioè fare investimenti in per aumentare la produzione di soddisfare la domanda – gli investimenti in nuove fonti di approvvigionamento sono in proporzione calati (le stime sono passo sulla rivista Nuova Energia). Nel 2002 la media era di 83 dollari di investimenti ogni 100 dollari di liquidità; nel 2003 e si scende a 70, nel 2004 a 55 dollari.

Secondo il professor Alberto Clò, economista dell’Università di Bologna ed esperto di politiche energetiche, “la crisi attuale è chiaramente strutturale e non è destinata a risolversi in tempi brevi. Non siamo di fronte a una cadenza assoluta di petrolio, ma il petrolio non viene fuori da solo, bisogna estrarlo, e negli scorsi anni le compagnie petrolifere hanno investito troppo poco nell’esplorazione e produzione”

Cosa significa? Significa che sia privilegiata la remunerazione degli azionisti, cioè incassare subito e puntare sulla finanza. Una strada oggi in gran voga ma che lascia aperto più di un inquietante dubbio. Il quesito è se cioè si punti, da parte delle compagnie, sul gioco al rialzo dei prezzi e quindi su una media speculazione, o se invece tutto ciò non dipenda anche da una scarsa fiducia sul poterlo trovare davvero altro petrolio disponibile in nuovi giacimenti.

Se il capitalismo sembra una bisca

Ebbene tornare sul tema della speculazione finanziaria a proposito di prezzo del petrolio perché è chiaro che chi opera in questo campo cerca solo di massimizzare il profitto immediato e nient’altro. Illuminante è leggere cosa ha scritto un economista come Marcello De Cecco, docente alla Normale di Pisa, su Repubblica: “dopo la debacle di agosto- settembre, gli hedge fund e gli altri scommettitori delle capitalismo delle bische si sono alacremente messi all’opera per rifarsi delle perdite subite a causa della crisi dei mutui americana. Tra le altre cose hanno aggredito un mercato dell’oro delle materie prime. Così, siccome i prezzi di petrolio e materie prime non interessano solo gli speculatori, ma entrano nella lista della spesa di quasi tutti i consumatori, sotto forma di aumenti del costo dei trasporti, del riscaldamento, ma anche del pane della pasta, si vede che la separazione tra economia e finanza è impossibile. Quelli che manovrano i loro poderosi computer in uffici situati nei palazzi delle principali piazze finanziarie non sono più personaggi remoti.

Il grande pubblico occidentale si accorge un tratto della loro esistenza, e non si diverte al pensiero che a causa loro dovranno sentire un po’ più freddo o fare un po’ meno chilometri con le loro auto o spendere di più per pane e pasta. Con la loro azione, tuttavia, gli uomini dei grandi centri finanziari determinano anche il destino di coloro che, nei paesi poveri, sono in bilico tra la vita e la morte. Il prezzo del pane per sfamarsi e del cherosene per cucinare e riscaldarsi dipende anche da loro. Questo non significa assolvere l’OPEC, che era e resta un cartello per tenere alti i prezzi del petrolio, ma significa solo chiarire anche le responsabilità di chi di solito non viene chiamato in causa”.

fonte: Consumatori, gen-feb/2008

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3 pensieri su “Petrolio: ma quanto ne resta?”

  1. Nell’articolo si è voluto dire “tutto” ed in fretta e si fa tanta confusione… Il problema petrolifero mondiale attuale è grave anche perchè la stragrande maggioranza dei consumatori non conosce praticamente nulla, ne’ di cos’è, ne’ di come si trova ed estrae, ne’ da dove viene importato e quanta energia si consuma in tutto il processo… Il discorso sulle riserve è assai complesso e fonte di mille incomprensioni. Suggerisco a tutti di partire sempre dalle basi. Farsi un lungo e lento giro raccogliendo informazioni dalla a alla z e farsi ognuno una idea libera e personale del problema.
    Una cosa è certa: il tempo delle vacche grasse è dietro di noi, lo sanno tutti coloro che lavorano nel settore idrocarburi. Ed a questo bisogna prepararsi, ognuno come può. Prima che scatti il degrado ultimo, la rapida decadenza, la violenza. Che è già scattata “altrove” ma prima o poi arriverà anche nei nostri quartieri, case. Farà chiudere questa o quella impresa in bilico, questo o quella scuola o ospedale che si pensava fosse quasi “eterno”.

  2. Il petrolio non finirà, almeno per 130 anni
    Esperti riuniti a Trieste, “riserve ancora vaste, picco lontano”
    31 agosto, 18:22

    Altro che fine del petrolio, con scenari apocalittici che vedono il prezzo dell’oro nero schizzare sempre piu’ in alto e guerre commerciali per accaparrarsi le ultime gocce. Le riserve ci sono e con i nuovi metodi studiati dai ricercatori di tutto il mondo sara’ anche piu’ facile trovarle e sfruttarle. Dell’argomento si discutera’ per due giorni a Trieste, nel corso di un workshop organizzato dall’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs) in programma fino al 2 settembre, e secondo l’organizzatore la scienza del petrolio e’ destinata a rimanere attuale ancora per molto.

    ”Gia’ due o tre anni fa, prima della crisi, le riserve stimate erano di 130 anni – spiega Aldo Vesnaver, che passa sei mesi l’anno in Arabia Saudita a insegnare le tecniche di estrazione ai ricercatori arabi -, ora che i consumi sono calati, il petrolio potrebbe durare ancora piu’ a lungo. Il problema e’ che per ogni barile di petrolio estratto ce ne sono 20 che passano di mano sulla carta, e gli speculatori ovviamente hanno dei vantaggi nel far passare il messaggio che il petrolio stia per finire”.

    Le stime si basano sulle riserve gia’ esistenti, spiega Vesnaver, ”il problema e’ che la maggior parte del petrolio e’ in mano a compagnie di Stato, in Venezuela come in Arabia Saudita. Per questo le multinazionali lo cercano ancora, perche’ quello che producono loro e’ molto meno, e quello si’ potrebbe finire presto”.

    Il ricercatore presentera’ una tecnica sviluppata per ‘auscultare’ i movimenti dei giacimenti sotterranei grazie ai microterremoti: ”Il petrolio si produce con due pozzi – spiega l’esperto – uno da cui si estrae e uno in cui viene pompata acqua ad alta pressione. Questa provoca delle microfratture nella roccia, che possono essere rilevate con sismografi estremamente sensibili. Dallo studio di questi ‘scricchiolii’ si possono capire le caratteristiche del giacimento”. La stessa tecnica, spiega Vesnaver, puo’ essere usata nello stoccaggio della CO2, per riuscire a capire i limiti oltre il quale non si puo’ piu’ pompare il gas. Al workshop parteciperanno 40 ricercatori ricercatori provenienti da vari paesi, tra cui Stati Uniti, Brasile, Arabia Saudita, Russia, Francia, Pakistan e Slovacchia, e rappresentanti della National Iranian South Oil Company e della Saudi Aramco. Un altro tema caldo sara’ quello dei gas idrati, di cui Umberta Tinivella dell’Ogs e’ referente internazionale.

    Questi gas, formati essenzialmente da metano congelato, stanno catturando l’attenzione delle comunita’ scientifiche di tutto il mondo, perche’ potrebbero costituire una nuova riserva di gas naturale quasi inesauribile.

    fonte http://goo.gl/2w8ms

    1. In poche parole hai appena descritto lo scenario di come si estinguerà l’ uomo. Hai idea di che cosa succede se venisse estratto tutto il petrolio? Si saturerebbe definitivamente la biosfera. Perché morire per estrarre una cosa che ti porta alla morte? Non è meglio convertire il mondo alle rinnovabili e durare e prosperare ancora a lungo adottando tutte le tecnologie naturali e proteggendo e lavorando per l’ ambiente? Addio.

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