Cenere alla cenere, polvere alla plastica

Il bruco che digerisce e distrugge la plastica

(aggiornamento di agosto 2017)
La larva della farfalla Galleria mellonella, la comune camola del miele, è in grado di degradare il polietilene, il più diffuso tipo di plastica e anche uno dei più difficili da smaltire. Per digerire la cera d’api di cui si nutre normalmente, l’insetto ha infatti evoluto la capacità di rompere legami chimici simili a quelli presenti nel polietilene.

Un bruco piuttosto comune è in grado di biodegradare il polietilene, o PE, una delle plastiche più resistenti e più diffuse. La scoperta – che potrebbe contribuire significativamente a risolvere problema dello smaltimento della plastica – è di un gruppo di ricercatori dell’Università della Cantabria a Santander, in Spagna, e dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna, che firmano un articolo su “Current Biology”.

Il bruco in questione è la larva della farfalla Galleria mellonella, ben nota a pescatori che la usano come esca, con il nome di camola del miele o tarma maggiore della cera.

La scoperta è avvenuta quasi per caso, quando i ricercatori hanno notato che i sacchetti di plastica che contenevano le larve erano costellati di fori: il 13 per cento della massa della plastica era stata divorata dall’insetto nel giro di 14 ore.

La sorpresa è arrivata quando hanno controllato se l’insetto ingeriva la plastica oppure riusciva a biodegradarla, scoprendo che il polietilene veniva trasformavano chimicamente in glicole etilenico, un composto organico molto usato come anticongelante.

Secondo i ricercatori, questa capacità è un sottoprodotto delle abitudini alimentari dell’insetto.

G. mellonella depone le uova all’interno degli alveari, dove le larve crescono sulla cera d’api, una complessa miscela di composti lipidici. Anche se in condizioni normali la larva non mangia la plastica, in caso di bisogno riesce ad adattarsi, molto probabilmente perché la digestione della cera d’api e del PE richiede la rottura di legami chimici dello stesso tipo.

La definizione dei dettagli molecolari della capacità di G. mellonella di digerire il polietilene richiede ulteriori studi, dato che al momento non è chiaro se sia dovuta direttamente al suo organismo o all’attività enzimatica della sua flora batterica.

Lo scorso anno era stato identificato un batterio, Ideonella sakaiensis, che è in grado di biodegradare, anche se piuttosto lentamente, un’altra plastica, il polietilene tereftalato (PET), ma la degradazione biologica del PE era finora ritenuta una possibilità molto remota.

Solo recentemente è stata osservata una degradazione, ma molto lenta e inefficiente, del polietilene da parte di un fungo e di un batterio intestinale di un’altra larva, Plodia interpunctella.

I ricercatori sperano che, grazie all’efficienza ben superiore di G. mellonella, sia possibile giungere a una soluzione biotecnologica della gestione dei rifiuti di polietilene.

fonte: lescienze.it


Un additivo potrebbe rendere rapidamente degradabili i sacchetti di plastica in polietilene e polipropilene.
Un sacchetto si degrada al 90 per cento in due settimane.

Ricercatori dell’industria norvegese Sintef hanno messo a punto un additivo che consente la degradazione rapida di polietilene e polipropilene, due plastiche che sono estremamente diffuse, utilizzate in fogli sottili anche per la produzione di sacchetti per la spesa.

Queste plastiche sono sensibili ai raggi ultravioletti, ma perché il loro processo di degradazione inizi deve passare almeno un anno. Il nuovo additivo rende il materiale sensibile anche allo spettro della luce visibile e in presenza di un po’ di calore, umidità e ossigeno – affermano gli esponenti dell’industria – un sacchetto si degrada alla stessa velocità di una mela buttata a terra: in presenza di un sole debole, il 90 per cento è degradato nel giro di due settimane e in 5 settimane si possono rilevare solo piccole tracce.

Il processo di decomposizione avviene in diversi stadi. Grazie all’additivo, la luce riesce a spezzare le lunghe molecole di plastica in frammenti piccoli che possono essere digeriti da microrganismi.

Singolare lo spunto che ha portato la società norvegese alla sintesi dell’additivo: tutto è partito dalla richiesta che era stata rivolta all’industria da parte di una casa di pompe funebri, che aspirava a un collare plastico per il sostegno del collo delle salme che preparava in grado di degradarsi perfettamente e senza lasciare tracce di colore antiestetico al momento delle riesumazioni. Un prima soluzione ottenuta dalla Sintef era risultata economicamente molto costosa, ma successivi perfezionamenti nei processi di produzione hanno portato a una soluzione che potrebbe essere interessante anche per un ben più vasto mercato.

fonte: http://www.lescienze.it/index.php3?id=12435

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